martedì 24 maggio 2011

martedì 17 maggio 2011

foToGraFia

IVIAN CELESTINO

Architetto che indaga attraverso i mezzi del video e della fotografia l’universo femminile. 

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Un incontro, un momento di riflessione in cui io e Vivian ci interroghiamo sui modi e le qualità dell’abitare femminile. Il pretesto è il progetto Altre Stanze, un percorso ancora in evoluzione che mira a definire non solo le modalità dell’abitare le case, ma le pratiche, femminili e non, di stare nelle città, di riempire di senso gli spazi pubblici, di rivendicare una nuova gestione dei tempi e dei luoghi.

Ho visto i tuoi video “Altre stanze”, so che me li hai mostrati per condividere con me un percorso di rilettura e ri-significazione dello spazio, specie domestico, ma non solo. Allora voglio porti alcune domande, innanzitutto perché il nome Altre stanze? Altre da cosa?

Altre sono le stanze della vita delle donne, non nel senso di diverse, altri sono i contenuti che le donne sono in grado di portare dentro, i colori, i rumori, i significati, altre le prospettive che partono dalle case.

Il tuo lavoro mi sembra un’indagine alla ricerca di un codice nascosto dello spazio. Qualcosa che sia capace di narrare le storie, ma anche l’anima e il desiderio di chi lo abita, lo cerchi tra gli oggetti, nella loro disposizione, nei dettagli. Come li scegli? Quanto conta la relazione con le abitanti?

Tutto dipende dall’intervista, il mio movimento nelle case comincia dopo aver raccolto gli elementi necessari per muovermi con lo sguardo. La scelta del video e del tempo, i corti durano 3 minuti circa, permette poi di raccontare l’esperienza e la storia seguendo un ritmo che diventa in un certo modo quello della vita quotidiana, dei gesti che dentro le case si compiono. Nei tre filmati leggo una chiave comune: la confusione del confine tra privato e pubblico, un uso libero, eretico dello spazio. Non a caso le protagoniste sono tre donne.

In “A house in every place” la casa è descritta come un buco, rifugio per la propria libertà, ma quando la videocamera segue l’abitante fino a fuori, scopre che il suo modo di relazionarsi e muoversi nella strada non è differente. La libertà domestica dunque contagia lo spazio pubblico e questa sembra una modalità efficace per modificare anche la percezione della propria sicurezza in strada?

Il confine è davvero confuso, ma volutamente se vogliamo, nessuna delle donne intervistate considera la casa un rifugio, un luogo lontano dal mondo, e anche il questionario usato per la ricerca parte dalla casa per uscire, volutamente e necessariamente, fuori, un fuori da sé, nella città, tra le persone, in una mescolanza di vite, progetti, passaggi. La casa resta, come posto dove le donne tornano ma dal quale inevitabilmente ripartono.C’è poi “Lucy in the room (with diamonds)” la stanza dell’adolescente che segna di fatto il confine di tutto il suo mondo non perché il suo mondo sia piccolo come una stanza, bensì perché è la stanza che esplode abbracciando il mondo. La realtà della comunicazione attraversa le pareti. A un anno dall’intervista Lucy mi ha detto che la sua stanza era cambiata di nuovo. Sono stata contenta di questo cambiamento, ho amato la stanza di lucy, quasi fuori moda per una ragazzina di 12 anni. Lucy sta crescendo e sta portando con sé il senso dello spazio nel quale vive, sta costruendo la sua identità, allora è giusto che la sua stanza esploda o che si ridimensioni, di sicuro resterà questa particolare attenzione a voler comunicare attraverso le pareti. Mi piace pensare che continuerà a prestare attenzione al suo personale modo di essere, attraverso uno spazio o la sua vita, che tutto non sarà filtrato solo dal corpo, nel senso dell’apparire, ma da un corpo che saprà dove andare e come muoversi.

Infine in “Add a place in the house” l’uso dello spazio è contemporaneamente domestico e collettivo, familiare e professionale, in una spazialità continua e circolare convivono lavoro di cura e laboratorio fotografico. 
Qui dimostri come la doppia presenza delle donne non è affatto “divisa” - come si dice - tra lavoro domestico e lavoro cosiddetto produttivo, ma che le donne stanno mettendo a punto una diversa organizzazione dello spazio che permette loro di vivere contemporaneamente due dimensioni forti del loro desiderio (ma anche tre, quattro..).

Le donne che riescono a dedicarsi alla professione e contemporaneamente al lavoro di cura sono tante, credo venga quasi naturale. Non si tratta di prediligere un percorso o l’altro. È una necessità, un bisogno, un’aspirazione e vedo in tutto questo anche un bisogno materiale. Inutile negarlo velando tutto di un romanticismo al quale la figura della donna non corrisponde più. Il lavoro di cura, quando condiviso, lascia il tempo per il lavoro produttivo, quello che porta le donne nelle città, le proietta verso i propri desideri o le scaraventa in luoghi di lavoro poco gratificanti.

Pensando al rapporto che le donne dei tuoi video intrattengono con lo spazio, potresti concludere che esiste un modo di abitare al femminile?

Esiste un modo di relazionarsi allo spazio che credo sia proprio di ogni persona. Ho intervistato donne diverse tra loro per età, percorsi ed esperienze di vita, annotando differenti approcci all’uso e alla cura dello spazio: la cura maniacale o il controllo misurato, l’attenzione ai particolari e agli oggetti o l’approccio più funzionale e pratico. Tutto dipende dai tempi di vita, dal gusto, dalle condizioni di passaggio o di stanzialità in quello spazio, da quanto la vita di fuori spinga le donne ad occupare nuovi spazi di libertà. Non parlerei di una modalità tipicamente femminile, anche se è vero che il lavoro di cura spesso lo è, o viene affidato ad altre donne che lo svolgono al loro posto o condiviso con chi vive lo stesso spazio.

Le donne che ti hanno aperto la loro casa, secondo te, sono consapevoli che la loro “libertà” nell’uso dello spazio è portatrice di una nuova cultura abitativa?

Non tutte. E poi credo che la libertà nell’uso dello spazio debba essere preceduta dalla conquista della propria libertà: la libertà nella gestione del tempo, del corpo, del lavoro, dei figli. Le case, come le vite devono diventare sempre di più esperienze di apertura, di dialogo, di scambio. Quasi degli spazi pubblici e di creazione sociale.

Quali sono le aperture che ti aspetti da questa silenziosa rivoluzione domestica?

Spero che la relazione di cura, delle relazioni, delle persone e dei luoghi da sapienza tipicamente femminile possa diventare una pratica sociale e condivisa.

E quali obiettivi ti poni nel tuo percorso di ricerca? Quali scenari prospetti?

Una volta montate tutte le interviste, circa 10, mi piacerebbe arricchirle con un sguardo esterno per provare a tracciare una mappa dei modi dell’abitare. Gli scenari, già in parte presenti nelle interviste ma non tanto nelle immagini, saranno quelli delle città, Altre stanze è stato un primo passo ora bisogna mettere i piedi e la testa fuori casa. La città è un luogo che non risponde alle esigenze delle persone e nel caso delle donne gli elementi di difficoltà si moltiplicano, recuperare il giusto potere sullo spazio della città significa rivoluzionare la nostra presenza per le strade, acquisire nuove sicurezze, nuove possibilità di spostamento, nuove agilità del corpo e della mente.

lunedì 16 maggio 2011

aMELIE NoTHOmb , assolutamente geniale

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