martedì 14 dicembre 2010

14 dec 2010 UNA GIORNATA QUALUNQUE!

OGGI HO VISTO INVESTIRE UN CANE..
E HO PENSATO CHE NON VOGLIO MORIRE..
NON VOGLIO CHE I MIEI FIGLI MUOIANO,
NON VOGLIO CHE LE PERSONE A CUI VOGLIO BENE MUOIANO.
PER FORTUNA è STATO SOLO UN PENSIERO VELOCE.

OGGI LE MIE SPERANZE "POLITICHE" SONO STATE DISILLUSE...
E GUARDANDO IL TELEGIORNALE HO PROVaTO TRISTEZZA...
SDEGNO..
MA QUESTO è UN PENSIERO RICORRENTE.

OGGI HO PORTATO I MIEI BIMBI A RACCOGLIERE IL MUSCHIO
NEL BOSCO, PER IL PRESEPE DEI NONNI .
OGGI SONO ANDATA A TAGLIARE I CAPELLI!
OGGI HO CUCINATO OSSI BUCHI!

QUESTA è UNA GIORNATA QUALUNQUE, MA PIENA DI PENSIERI..

sabato 11 dicembre 2010

giovedì 9 dicembre 2010

sua maesta' SOPHIE CALLE

Incontro con Sophie Calle (2004)

(l'Unità, 27 gennaio 2004)
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Sophie Calle abita e lavora in uno di quei grandi spazi post-industriali sul bordo della città di Parigi, senza per questo essere periferia. Annette Messager e Christian Boltanski sono suoi vicini di casa. Ho il ricordo sbiadito di una mia visita molti anni fa: mi colpirono la sua intensità e insieme semplicità (avevo fame e continuammo a discutere dandoci del voi mentre mi friggeva un uovo). Sophie Calle è un’artista concettuale. Usa le immagini, le fotografie, la scrittura, le forme narrative, l’assemblaggio di materiali e di oggetti, i video, le installazioni, ma soprattutto le idee, cui non può esimersi di dare forma di racconto. Essere artisti di idee è un’attività potente, ma anche fragile, se è vero che chiunque può appropriarsene e ridistribuirle a sua volta, inglobandole entro la propria “firma” (e tanto più se autorevole). Per esempio: il romanzo Leviatano dello scrittore newyorchese Paul Auster, per molte pagine, compie un perfetto plagio delle opere di Sophie Calle, il che non cessa di turbarmi. Il personaggio del romanzo si invaghisce di una certa Maria, artista ingegnosa e anticonformista, e ne racconta il lavoro e le idee. Tanti lettori non lo sanno, ma a parte un paio d’invenzioni marginali, tutto ciò che lo scrittore attribuisce a quel personaggio è effettivamente successo nella vita e nell’opera (indistinguibili) della parigina Sophie Calle. Di cui traccio ora un sommario e parziale elenco cronologico.


All’epoca della sua prima opera (Les Dormeurs, Biennale di Venezia 1979) Sophie Calle ha ventisei anni: ha invitato a dormire nel suo letto ventinove tra amici e sconosciuti, di cui ha fotografato il sonno a tutte le ore. A Venezia segue un uomo per quindici giorni, prendendo foto e appunti (Suite venitienne, 1980). Da quell’anno fino al 1993 conduce un lungo rituale di compleanno e conserva metodicamente i regali ricevuti. Nel 1981 si fa seguire da un detective privato da lei stessa ingaggiato a sua insaputa, e confronta i suoi rapporti con il proprio diario quotidiano. Lo stesso anno si fa assumere come cameriera in un hotel di Venezia, per fotografare le tracce di vita dei clienti. Nel 1983, dopo aver trovato per strada un’agendina con rubrica di indirizzi, invece di renderla al proprietario conduce su di lui un’inchiesta quotidiana, un feuilleton, sul giornale Libération, facendolo raccontare dalle persone che compaiono sulla sua rubrica. L’anno successivo, a Los Angeles, chiede agli abitanti dove siano gli angeli che danno il nome alla città (Les Anges, 1984). Avendo contemporaneamente ottenuto una borsa per il Giappone, sale sulla Transiberiana e ne fotografa il lentissimo viaggio, e soprattutto il suo compagno di cabina (Anatoli, 1984). Nel 1986 chiede a dei ciechi dalla nascita di dare una definizione personale della bellezza (Les aveugles) mentre dal 1988 al 2003 intraprende lavori autobiografici, tra cui quello sul dolore (Autobiographies e Douleur exquise). E così via. (Credo di aver dato un’idea del metodo di Sophie Calle. Per fare un altro esempio, mi viene in mente che, in mano a lei, l’ormai famoso enunciato “di’ qualcosa di sinistra”, sotto la cui egida la mia amica Lidia Ravera scrive monologhi settimanali su questo giornale, sarebbe stata un’inchiesta - ognuno dica una cosa di sinistra - che opportunamente montata sarebbe divenuta non solo un’opera, ma anche, possibilmente, un concreto programma dell’Ulivo). Tutti questi lavori, disponibili anche come libri editi in genere da Actes Sud, sono visibili insieme ad altri nell’ampia retrospettiva di Sophie Calle in corso al museo Beaubourg di Parigi fino al 15 marzo - nonché copiati da Paul Auster in pagine che colpiscono per l’ingegno delle trovate (lo stesso Auster che basò il suo film Smoke su un racconto di Georges Perec, mai menzionato). Mi scuso di insistere su questo, ma il tema è importante: a chi appartengono le idee? Quale rapporto tra le idee e i racconti? Anche se non c’è risposta a queste domande, articolarle significa andare al cuore del lavoro di Sophie Calle.


Le idee sono nell’aria, quindi sono di tutti. Ma l’unico tratto che distingue oggi l’arte dagli altri oggetti e pratiche della vita più o meno ordinaria è la firma, dalla cui “istituzione” dipende ogni ulteriore valorizzazione estetica. Catturare le idee e poi ridistribuirle come pezzo del proprio vissuto soggettivo: è il tratto costante e comune delle opere concettuali di Sophie Calle. Ossia fare del mondo, di ogni cosa del mondo, la propria autobiografia. In fondo è un’operazione squisitamente filosofica, non molto diversa, ad esempio, dal Discorso sul metodo di Cartesio. E’ anche l’essenza di ogni vocazione letteraria. Il voyeurismo concettuale e autobiografico di Sophie Calle - che tanti imitatori ha avuto in questi anni con la diffusione del genere “documentario” nelle arti visive e nel cinema – consiste nell’essere insieme autori e attori della propria opera. E se in questo metodo c’è almeno un limite, anzi un’aporia, anch’essa è forse generosamente esplicitata nell’opera più intensa della mostra parigina di Sophie Calle, non a caso inedita e, dice l’artista, frutto di un fallimento. Si chiama Unfinished – incompiuta o infinita. Ed è di questa che vorrei ora parlare.


Non è casuale che quest’opera abbia a che fare con il denaro. Nasce così. Nel 1988 una banca americana invitò Sophie Calle a realizzare un progetto in situ. All’esterno della banca, i distributori automatici (i cosiddetti bancomat) erano sormontati da videocamere di sorveglianza che registrano volti e gesti dei clienti. Sophie Calle volle visionare quell’archivio di umanità in bianco e nero protesa in una comune, muta e solitaria transazione di denaro. Ma anche: il volto ansioso di una donna che infila un assegno, e dopo venti secondi si illumina (l’assegno risulterà falso e rubato). Un uomo che aggredisce una donna, e un altro che appare subito dopo a torso nudo. La videocamera è indifferente alle persone, è lì per sorvegliare soldi e sportelli. Migliaia di volti, tesi, pazienti, rassegnati. Sguardi indifferenti, vuoti, in attesa. Altri totalmente disperati. Sophie Calle riuscì a procurarsi dal detective privato della banca un certo numero di quelle immagini videoregistrate. Ma, confessa, “non sapevo cosa fare di quelle immagini. Raccontavano qualcosa, ma cosa? Parlavano di sorveglianza, di soldi, di solitudine? Dovevo pensarci”. Due anni dopo torna sul posto in cerca di “un’idea per accompagnare quei volti”. Fotografa allora dentro la banca i sacchi di denaro, le mani degli impiegati che maneggiano tutto il giorno banconote, interrogandoli sul loro rapporto materiale e spirituale col denaro. Ma non c’è associazione di idee, anche quella del denaro col sesso e la morte, che non appaia stereotipata. Che fare? Lo stile di Sophie Calle, nei suoi lavori, consiste sempre nel legare immagini e testi. Nel 1994 chiama in aiuto Jean Baudrillard, che visiona quelle immagini rubate e in cambio le consegna quattro cartelle tipicamente baudrillardiane che parlano di sicurezza e oscenità del denaro, dell’universo della distribuzione automatica e del mondo simulacrale del valore, paragonando il bancomat a un vespasiano e a un confessionale. Ma il problema di Sophie Calle restava il seguente: “Qual era il mio ruolo? Avevo bisogno di azione”. Manca l’opera, perché manca l’esperienza. Sophie Calle ricomincia da capo (siamo nel 1997), osserva di nuovo le migliaia di immagini di volti ripresi dalle telecamere. Si accorge che sono bellissime e commoventi? C’è qualcosa, in quelle immagini rubate di volti, che produce un effetto ancora più lancinante di quello delle foto di morti, ingrandite e sgranate come Sindoni, che da anni ci mostra Christian Boltanski. Annota Sophie Calle: “Immaginai una sala vuota. Un solo ritratto. Un solo volto proteso verso il denaro”. A un certo punto si pone un dubbio interessante: “E’ forse perché il denaro permette di fare, che non riesco a fare niente sul denaro?” Assillo che maschera forse una constatazione finale, romantica e disincantata allo stesso tempo: “se non sono riuscita a lavorare sul denaro è perché il denaro non mi manca, mentre io riesco a lavorare solo su ciò che mi manca”. Dopo di che si arrende, accorgendosi che a quei volti non c’è proprio nulla da aggiungere. Restano, dopo 15 anni, quelle immagini silenziose, a saldo di un investimento che grazie alla resa si rivela redditizio: il plusvalore è un “video d’artista” accompagnato dalla sua voce off che ne racconta la storia e così lo rende (lo firma) opera.


Fine dell’apologo, e della recensione alla mostra di Sophie Calle che ne è pretesto. La domanda di chi siano le idee e da dove vengano non ha molto senso senza le esperienze. Senza le esperienze le idee sarebbero metaforiche e arbitrarie come i denti di Berenice nell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe: folle violenza. D’altra parte, Sophie Calle ha detto di quelle immagini di bancomat che doveva semplicemente “abdicare davanti alla loro presenza”. Un bel modo di riconoscere la propria aporia, in una mostra dal titolo M’as tu vue (“Mi hai vista?”). Un bel modo di pervenire all’irriducibilità degli altri attraverso il proprio (altrettanto irriducibile) egocentrismo. Quei volti privati presi nel più pubblico e impudico dei gesti operano una collisione scabrosa tra una passione fisica e un’indifferenza, immateriale e virtuale. Da qualunque parte lo si consideri, non è un apologo di poco conto per quanti di noi si ostinano a interrogare, cercare, sperimentare idee e storie, protendendosi verso di esse con disperazione o pazienza. E anche per tutti gli altri, quelli che anche per le idee vanno al distributore automatico.


Beppe Sebaste

sabato 4 dicembre 2010

Elisa - Forgiveness



ieri, in macchina...fuori freddo.
..io e i miei bimbi appisolati.
attimo di pace e tranquillita'